Repure! Another life.

CHIUSO.

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    Buio, tenebre, oscurità. Silenzio. A svegliarla è l'odore pungente dei cavi elettrici bruciati che pervade la sua stanza e, rapidamente, anche la sua piccola cabina di vetro, come fosse stata una piccola bara. Apre lentamente l'occhio destro, di un inquietante e vibrante colore cremisi, il vermiglio del sangue acre e denso che era stata abituata a vedere. Dapprima, per l'appunto, non riesce a distinguere bene i contorni di ciò che la circonda. Porta le mani in avanti, quasi istintivamente, ad orientarsi. Thud. Sbatte contro qualcosa. Una lastra di vetro, fredda, ghiacciata. Solo a quel punto si rende conto di quanto faccia freddo intorno a lei. Chiude e riapre le palpebre più volte, per darsi conto di cosa stia accadendo. Il cuore perde qualche battito. Tossisce, riapre gli occhi. Riconosce l'ambiente che la ospita. Un laboratorio, non troppo grande; anzi, piuttosto buio, alle cui pareti sono appesi scaffali pieni di libri e strani medicinali, nonchè parti di bambole di porcellana e legno. Le stesse parti che, ora, compongono il suo corpo. Porta la mano all'apertura della teca che la contiene ed esercita una leggera pressione. Ricorda che cosa fosse: un piccolo reliquiario in grado di mantenere il suo corpo congelato fin quando suo padre non avesse terminato di perfezionare il suo corpo meccanico e salvarla dalla malattia. Era riscito persino ad isolare il virus, in modo che non fosse più contagioso. Ma evidentemente non era vissuto abbastanza da completare il proprio lavoro, e lei era rimasta lì fin quando non era entrato in disfunzione qualche pezzo. La porta di vetro si apre. Un odore acre e pungente le invade i polmoni. Tossisce convulsamente; sbatte le palpebre, alza il busto con un leggero sforzo. E' ancora infreddolita ed intorpidita dal gelo. Non sente quasi le gambe. Si guarda intorno. Quello che nota è uno spettacolo raccapricciante, che non sembra sconvolgerla tuttavia particolarmente. Il vecchio genitore, ormai più carne marcia e lurida che semplice cadavere, è riverso su una delle scrivanie presenti sulla stanza. Una delle tante vittime, che sia del tempo o della malattia.



    Una bambola senza un pezzo
    è un rottame, nient'altro. Quale bambino ne vorrebbe una?
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    Kuy continua a correre col cuore in gola, sente il respiro pesante, ma non può fermarsi, non deve. Svolta l'angolo, salta il cancello e si ferisce sul ferro spinato. Emana un lieve gemito ma non si ferma. Continua la sua corsa per sfuggire ad un mostro, o qualcosa del genere, contaminato come molti da quell'orribile malattia. Svolta l'ennesimo angolo e si guarda indietro. Il mostro sembra non seguirlo più. Kuy cade a terra esausto, con il fiatone, cercando di fare respiri profondi. Guarda l'orario: è tardi, deve trovare un posto sicuro per la notte, quindi decide di entrare nella "casa" (o qualcosa del genere) accanto. Non è un ambiente molto ospitale, anzi, per niente, ma si deve adattare: meglio stare al chiuso, almeno di notte. Kuy entra in una stanza e getta lo zainetto in un angolo, sedendosi poi a terra a riprendere ancora fiato. Tiene la testa tra le mani, ancora non riesca a spiegarsi come ha fatto il suo migliore amico a trasformarsi in un mostro, ma poi capisce che l'unica spiegazione è quella malattia da cui tutti scappano, un terrificante morbo contagioso.



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    Spalanca la bocca, annaspando per un po' di aria calda: la piccola teca di vetro che la contiene è gelida, brividi le pervadono i polmoni. Ciò che la sconvolge è la mancanza dell'imput tattile. Non riesce a sentire il freddo liscio delle pareti vetrose, nè il gelo sulla pelle ancora imperlata da piccoli frammenti granulosi di ghiaccio. L'odore di putrefazione passa quasi in secondo piano davanti alla sua necessità di alzarsi e spostarsi da quella che le sembra quasi una bara eternante, un giaciglio di cristallo in cui è rimasta chiusa per tanto, troppo tempo. Perchè è passato molto tempo, vero? Suo padre, il Dottore, aveva appena trent'anni quando l'ha chiusa lì dentro. Ed i resti marci del suo corpo mantengono il vago aspetto appena riconoscibile di un vecchio, affaticato dal peso degli anni gravante sulla sua carne smagliata. Con la mano destra cerca il bordo del contenitore trasparente, fallendo più volte: la mancanza di un occhio, il sinistro, coperto da una benda bianca, le impedisce di percepire la profondità dell'ambiente. Quando finalmente lo trova, si alza in piedi, ma lo stesso problema le impedisce di alzare abbastanza la gamba da trovare un solido appoggio nel pavimento: inciampa, cadendo rovinosamente al suolo. Clatch. Il braccio si stacca dalla sua usuale ubicazione, con uno scatto secco, piombando a terra, poco distante da lei. «Oh...» geme appena, con la sua voce delicata, piccola, quasi impercettibile. Si inginocchia, sporgendosi in avanti per recuperare l'arto. Dalla sua spalla escono alcune scintille, dovute all'usura dei cavi elettrici che hanno ceduto, favorendo la rottura del braccio. Non prova dolore, questo no. Solo un leggero fastidio in corrispondenza delle poche parti umane rimastele, di carne e sangue: le interiora, per l'appunto, e la cute morbida in parte sintetica. Un bruciore assolutamente sopportabile.
    Poi, un tonfo secco, sordo, nella camera accanto. Misaki leva il capo di scatto, alzandosi barcollante. Cosa potrebbe mai essere?



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    Respira ancora affannosamente, cerca in poco tempo di riprendersi da una corsa di venti minuti. Si alza dal pavimento ed esplora la stanza attorno: è quasi tutto distrutto, la finestra è mezza spaccata e accanto ci sono i resti di quello che tempo fa doveva essere un letto. Vecchi e rotti pupazzi e bambole con parti mancanti sono sparsi ovunque sul pavimento, dietro al letto e su un piccolo comodino senza cassetti gettato in un angolo. Kuy recupera il suo zainetto e lo mette in spalla, deciso a cambiare stanza, perché quella era troppo inquietante: tutte quelle bambole sembravano fissarlo e avercela a morte con lui. Esce appena un po' dalla stanza e respira profondamente. Avverte un forte senso di nausea quando un odore di acqua stagnata e cavi elettrici lo pervade. Non si era ancora accorto di quell'odore nauseante, ma sembra essere impregnato in tutte le pareti della struttura. D'istinto porta le mani alla bocca e cerca di coprirsi il naso. L'odore si fa sempre più forte e lo sopporta a malapena. Indietreggia un po' e barcolla, poi ritrova l'equilibrio e si guarda attorno: ci sono due stanze accanto alla sua, poi una lunga scalinata di fronte a sé. In rumore che ha sentito prima sembra provenire dalla stanza accanto alla sua, ma non osa entrare.



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    Si guarda intorno, circospetta, sebbene la sua espressione impassibile resti immutata. Barcolla un po', poi crolla di nuovo a terra. Camminare, dopo essere rimasta ferma, immobile, per tanto tempo, si profila come un'impresa più ardua del previsto. Nell'ambiente si propaga il rumore del tonfo sordo causato dalla sua caduta; come un suono anomalo, una marionetta che cade al suolo, frantumandosi. Un'altra crepa si va formando in corrispondenza del braccio mancante, nella parte interna del suo torace. La può sentire ben percettibile. Non è molto lunga, ma è sicuramente destinata ad allargarsi ancora. Con una leggera pressione dell'arto rimastole, riesce a sollevare il busto e trascinarsi in corrispondenza della parete. Si alza lentamente, un piede alla volta, senza rinunciare all'ausilio del muro marcio. Si sta quasi abituando all'olezzo nauseabondo che il cadavere putrefatto emana. Deve trovare qualcuno che la aiuti, che le spieghi, che la informi su quanto accaduto durante il suo stato di coma profondo indotto. Ma intorno a lei non c'è nessuno: solo i resti purtefatti di un corpo anziano e abbandonato a sè, al tempo. Poi, improvvisamente, un rumore. Appena percettibile, sì: sono passi, Misaki li distingue perfettamente, mentre li ascolta provenire dal corridoio. A lei non era permesso uscire da quella stanza. Non ricorda neanche che aspetto abbia, il mondo esterno. Con piccoli passi lenti, lungo la parete, si avvicina all'uscio, avanzando una gamba, poi l'altra, ritmicamente ed alternatamente. Poi, finalmente, lo varca. Ciò che si presenta al suo occhio di un vibrante colore scarlatto è qualcosa che non ha modo di vedere da molto, molto tempo. E' un ragazzo. Ed è vivo. E' così stupita che dischiude appena le labbra, ma non ne esce alcun suono.



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    Kuy

    Kuy sobbalza alla vista della ragazza, indietreggia di qualche passo terrorizzato e si appoggia al muro. Che diavoleria era quella? Di sicuro non era una bambina, o almeno non lo sembrava proprio, faceva paura. Kuy strizza più volte gli occhi per constatare che non fosse la sua vista ad essere danneggiata, ma quell'essere resta sempre uguale, così terrificante, così strano. Cerca di dire qualcosa, ma il fiato gli si strozza in gola, Deglutisce nervosamente più volte, poi si decide a dire qualche parola.
    «C-chi sei?» balbetta confuso.



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    Misaki Mei 05

    Misaki non riesce a staccargli lo sguardo di dosso, sebbene si ritragga lei stessa ai suoi occhi, nascondendo il suo corpo dietro la porta e lasciandone fuori solo la testolina minuta ed incorniciata dai capelli corvini e corti; lo osserva, ne scruta il volto, le iridi vivaci, i capelli arruffati. E' curiosa, avida di dettagli che le mancano. Sembra che la sua conoscenza dell'altrui fisicità si sia persa nel tempo, come, del resto, tutto ciò che le era più noto. Persino il suo corpo umano era stato mano a mano sostituito con una macchina, per giunta incompleta. Resta in silenzio, del tutto assorta, ciondolando appena il capo di lato, ove la seguono le ciocche nero inchiostro. E' l'estraneo a spezzare il silenzio, balbettando, incerto: «C-chi sei?». Una domanda più che lecita. Lei deve pensarci qualche istante: è tanto tempo che non usa il suo nome. Probabilmente anche più di mezzo secolo. Dischiude le labbra, prende fiato, poi ne esce un soffio leggero che quasi non s'avverte. Infine, risponde: «Mei.» breve pausa «Misaki Mei.». La sua voce è tanto flebile da essere appena percettibile. Un dubbio la assale. Si chiede se non sia uno di quei medici pronti a reinserirla nella capsula. Sussulta: non vuole tornarvi. Ha paura. «Sei... un dottore?» domanda, con sguardo decisamente neutro e impassibile in volto. Non c'è molto che possa distinguerla da una comune bambola di porcellana.



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    Scusa se ci ho messo tanto a rispondere x°' ho avuto un po' di problemi
     
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    Kuy

    Misaki Mei? Di sicuro non la conosceva e aveva qualcosa di inquietante, quella bambina, sembrava un misto tra un robot e una bambola di porcellana, una di quelle con le labbra sottili dipinte a mano e i capelli finti di una tinta inesistente in natura. La scruta un po' per cercare qualcosa di umano in lei, poi si sente rivolgere quella domanda. Un dottore? Perché mai avrebbe dovuto essere un dottore?
    «No» afferma un po' più deciso Kuy, «non sono un dottore, sto solo sfuggendo ad un mostro»
    Kuy ha l'impressione che quella bambina si sia appena svegliata da un sonno millenario, o che perlomeno si sia persa gran parte degli avvenimenti degli ultimi decenni. Adesso si sente un po' più tranquillo di prima, ma non totalmente: ancora non conosce le intenzioni di quella "cosa" che ha di fronte, ma se avesse voluto ucciderlo lo avrebbe già fatto.



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    Tranquilla, scusa tu che non mi ero proprio accorta della risposta LOL
     
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    Misaki Mei 05

    Dopo qualche istante di esitazione in cui lo sconosciuto le punta lo sguardo addosso e la scruta atterrito, finalmente le rivolge la parola, con un tono un po' più sicuro, sebbene perplesso a causa dell'insolita domanda. Misaki non se ne rende conto: è troppo preoccupata per la sua fuga illegittima. «No,» sostiene lui, negando la sua appartenenza al campo medico. Per un attimo, Misaki sembra calmarsi. Poi una scintilla fuoriesce dalla sua spalla priva del braccio, che ormai porta stretto tra le dita, e la infastidisce appena. Non si volta neanche a guardare. Torna con l'attenzione verso lo sconosciuto. «non sono un dottore, sto solo sfuggendo ad un mostro.» afferma lui, deciso, eppure esitante nello sguardo, nel rivolgersi ad un essere tanto strano quanto insolito. Una creatura a metà tra un essere umano ed una bambola. Senza un nome, se non il troppo anonimo e vuoto "Misaki Mei".
    «Un mostro...» ripete lei, vagamente interessata. Stranamente, la presenza di una creatura pericolosa la spaventa ancor meno della possibilità anche remota di tornare rinchiusa nella custodia di vetro. Non si sente una marionetta, non vuole essere riposta come uno degli arti attaccati alle pareti. Si avvicina di un passo al ragazzo. «Vogliono chiudere anche te?» domanda, con il suo atteggiamento pacato, eppure quasi ipnotico nel suo insieme. Tuttavia, non osa discorstarsi dalla parete: non riuscirebbe a muoversi. Si guarda intorno. Ha perso ogni cognizione: del tempo, dello spazio, perfino della consapevolezza di sè.



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    «Vogliono chiudere anche te?» domanda la bambina con tono calmo. Kuy non capisce a cosa si stia riferendo, è proprio vero che quella bambina deve essersi persa qualcosa.
    «Non so di cosa stia parlando tu» riprende, «ma ti conviene andare a vedere un po' il mondo lì fuori...»
    Prende lo zaino che aveva lasciato nella stanza e fa segno alla bambina di uscire. Ma... magari non può farlo? Sembra stare male, chissà cosa le è successo.



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    Misaki Mei 05

    Il ragazzo le rivolge uno sguardo che non sembra consapevole di quanto gli ha appena chiesto; nel frattempo, Misaki continua a puntagli contro il suo occhio scarlatto, scrutandolo, curiosa, eppure terribilmente spaventata. Tutto ciò non traspare neanche dal rubino della sua iride, impassibile, glaciale. «Non so di cosa stia parlando, tu.» proferisce l'interlocutore, riprendendo una certa calma che poco prima gli era mancata «Ma ti conviene andare a vedere un po' il mondo lì fuori...». A questo punto, il giovane si carica in spalla lo zaino che aveva probabilmente posato a terra poco prima e le fa cenno di seguirlo, per inoltrarsi in un mondo che non conosce. Misaki è curiosa, ha voglia di uscire. Ma può? Il Dottore si arrabbierà, se esce senza il suo permesso? Il suo cuore sussulta, mentre muove i suoi passi verso la libertà. Prova a scostarsi dal muro, portando le mani in avanti come un bambino che muove i suoi primi passi. Perde l'equilibrio e, nel cadere, il braccio che porta tra le mani le sfugge, cadendo ad un metro dal ragazzo. «Così non va...» commenta lei, puntando le mani a terra nel tentativo di alzarsi.



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    Scusa l'immenso ritardo T_T
     
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    Il ragazzo è leggermente disgustato dalla scena, ma non lo lascia trasparire. Vive in una realtà in cui non dovrebbe aver paura di incontrare strani esseri, eppure quella bambina è inquietante, gli mette una certa angoscia. Scrolla la testa mandando via tutti quei pensieri e si precipita ad aiutare la bambina: recupera il braccio un po' disgustato e glielo restituisce.
    «Mi sa che così non potrai andare da nessuna parte» sorride, «non... puoi rimetterti un po' a posto?»
    Magari non era la domanda migliore da fare, ma non si era mai trovato in quel genere di situazioni e non sapeva come uscirne fuori. Magari quella strana creatura era stata creata in un laboratorio, o magari modificata, o qualcosa del genere, ma ormai sulla Terra gli umani rimasti tale erano pochissimi.



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    Misaki punta il braccio in terra e cerca di sollevare il busto. Lo sente tremare debolmente, mentre dalla spalla opposta fuoriesce un'altra fastidiosa scintilla elettrica. Lei vi porta lo sguardo, come sempre impassibile, neutro, quasi vuoto, quindi alza lo sguardo verso lo sconosciuto ragazzo di cui ancora non conosce neanche il nome. Le si è avvicinata con un sorriso un po' tirato; le porge il braccio meccanico, restituendoglielo. Lei allunga la mano, non cambia la propria espressione, ma mormora un «Grazie.» appena percettibile, con la sua voce delicata che sembra scivolare via dalle sue labbra in un soffio leggero. Quindi porta l'occhio scarlatto alla parte di sè che non sa come riapplicare al resto del corpo. Non è un medico, nè un meccanico. E' solo un burattino costruito a metà, lasciato da parte dal proprio costruttore. Totalmente inesperto del mondo. «Mi sa che così non potrai andare da nessuna part.» gli suggerisce il ragazzo, e lei annuisce, tornando a portare lo sguardo su di lui. Da terra, le sembra ancora più alto ed imponente. «Non... puoi rimetterti un po' a posto?» le domanda lui, e lei ascolta, per poi avvicinare il braccio alla parte mancante. Non ha idea di come sistemare il braccio nell'articolazione della spalla. Prova ad avvicinarvelo, e per qualche istante i fili elettrici sembrano attirare naturalmente la parte mancante, collegandosi ad essa. Ma non appena Misaki lascia andare la presa sull'arto, quello cade di nuovo a terra, per la terza volta consecutiva, stavolta frantumandosi in due pezzi distinti e sparpagliando le parti in plastica e metallo qua e là. «Ora non posso più usarlo.» commenta la ragazza, in un sospiro. Non sembra spaventata, nemmeno dispiaciuta. E' come rassegnata al corso degli eventi. Si volta verso lo sconosciuto, attendendo qualcosa da parte sua, una reazione, una proposta. E' la prima volta che esce all'esterno.



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    «Mi dispiace...» mormora Kuy appena avverte le parole della ragazza. Non sa cosa fare, dal canto suo non sarebbe mai capace di riattare un arto (cosa strana a sentirsi, eh?) ma cerca lo stesso, invano, di collegare i pezzi del braccio e poi il braccio al corpo. I pezzi cadono di nuovo rumorosamente sul pavimento.
    Kuy si accorge che la ragazza lo sta fissando come per chiedergli di avanzare una proposta. Kuy si porta un braccio dietro la nuca, poi si concentra pensando qualcosa.
    E se... ci pensasse chi l'ha costruita? chiese a se stesso.
    «Senti» disse poi rivolgendosi alla ragazza, «non possiamo chiedere a chi.. insomma, a chi ti ha... fatta così?» stentò a completare la domanda, non sapendo quali parole utilizzare per esprimere il concetto. La ragazza che aveva davanti tutto sembrava tranne una creatura umana. Quindi qualcuno doveva averla conciata così per forza.



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    «Mi dispiace...» mormora il ragazzo, che sembra quasi spaesato nel rivolgerle lo sguardo; Misaki considera che non è da tutti partecipare ad una visione quasi aberrante di ciò che l'uomo è in grado di operare su un suo simile, eppure pensa anche che la realtà del mondo, lì, fuori, dove non ha mai osato uscire, debba essere anche peggiore. «Non fa niente.» lo rassicura, col suo tono di voce sempre atono, privo di personalità, anonimo nel suo insieme. «Posso stare anche senza.» conclude, cercando di alzarsi in piedi, allungando in avanti la mano come alla ricerca di un appoggio. Si tiene in piedi a stento, barcollando, ma è già un inizio. «Senti, non possiamo chiedere a chi... insomma, a chi ti ha... fatta così?» domanda il giovane, giustamente. «Il dottore?» si chiede l'androide, alzando lo sguardo verso l'alto, senza tuttavia deconcentrarsi dalla sua condizione di equilibrio precaria; si tratta dell'uomo il cui cadavere, o meglio, i resti putrefatti ha intravisto poco prima. «Lui non può più aiutarmi.» liquida la domanda in maniera lacunosa. Oltretutto, non muore dalla voglia di far mettere le mani su ciò che, già poco, resta di umano in lei.



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